Il maestro d'orchestra a Sanremo: appunti / by Enrico Gabrielli

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Come funziona il Festival della Canzone Italiana dal punto di vista di coloro che devono occuparsi di quella strana macchina che si chiama “orchestra”?

Non posso dichiararmi un veterano, né tanto meno un fervente accolito della chiesa del Santo Remo. Ma da piccolo ricordo che però lo si guardava, un po’ sulla scia lunga della depressione post Natalizia e l’euforia pre Carnevalesca. Ora però che del Carnevale non frega niente a nessuno questa associazione pare vieppiù anacronistica. Però le parentele tra il Festival della Canzone Italiana e il Carnevale per me sono sempre state evidenti: costumi, sfarzo, fiori, falsa allegria, luci. In una sola parola: una “carnevalata”. La musica è sempre stato un “poi”, un “dopo”, la foglia di lattuga nell’hamburger.

Poi è successo, negli anni, che Sanremo ha perso e ripreso aderenza nell’interesse collettivo come le onde di una risacca. Di questi tempi, ad esempio, pare essere tornato ad incuriosire. Gli insospettabili lo guardano, i sospettosi lo scrutano, i detrattori detraggono informazioni utili sulla salute dello status quo culturale.

Io ci sono stato nel 2009 che l’orchestra aveva lo stesso organico: flauto, oboe, due clarinetti (anche sassofoni), due trombe, due tromboni, archi, percussioni e il resto della ciurma rock con tre chitarristi, sei coristi, un bassista, un batterista e tre tastieristi. Mi pare che abbiano aggiunto solamente i corni francesi e per quanto avessi un vago ricordo ci fosse anche l’arpa, ciò non è vero: l’arpa a Sanremo c’era solo fino a vent’anni fa. L’assetto dell’organico, se si va a vedere le prime esibizioni televisive negli anni sessanta, era prevalentemente classico con elementi da jazz orchestra. L’orchestra negli anni ’80, con il playback, era addirittura scomparsa. In seguito, dagli anni novanta, sarebbe tornata tanto prepotente e battagliera da conformare uno standard sound “sanremese”, con un gusto e una retorica che arriva fino ad oggi.

Un fatto nuovo è che l’orchestra negli ultimi cinque o sei anni a Sanremo si ascolta meglio.

Uno degli adagi, per coloro che si cimentavano con il palco dei fiori era che l’orchestra non si sentiva mai bene in televisione. Per cui si scriveva attenti a non far emergere troppo strumenti stravaganti, e puntuali nel ricoprire il dettaglio di melassa.

Ricordo ancora che quando andammo con gli Afterhours con “Il Paese è reale” il ragionamento fu proprio questo: il risultato fu quello di esagerare il registro alto degli archi e mettere dinamiche “di fuoco” agli ottoni sperando che qualcosa sarebbe uscito.

Al di là di questioni capziose di qualità delle esecuzioni che non sono oggetto di analisi in questa sede, l’orchestra nelle ultime edizioni sembra aver trovato la sua (se pur vaga) collocazione nel mix. Molto probabilmente è perché si è iniziato ad adottare una tecnica che nelle televisioni anglosassoni era già in uso da un po’: sovrapporre l’orchestra da vivo con quella (intera o parziale) preregistrata in studio. Ciò aiuta a coprire eventuali errori e a potenziare la massa arrotondando le frequenze. Si dice, in gergo tecnico mandare una “sequenza” in base. Nella scheda tecnica fornita dalla RAI, in cui danno informazioni sull’organico disponibile, c’è un capitolo di alcune righe in cui viene spiegata la questione tecnica relativa all’uso delle sequenze. Ciò significa che viene posta grande attenzione a questo elemento funzionale. È anche segno dei tempi in cui la RAI si ritrova (finalmente) ad essere aggiornata sulle specifiche in uso worldwide sulla gestione del semi-playback. La cosa, però, completamente anacronistica è che per le voci vige il divieto assoluto di utilizzare in base cori o doppie voci. L’epoca in cui viviamo, così “artefatta” e digitale, necessiterebbe di eliminare le celebri stecche del palco dei fiori e sarebbe giunta l’ora che l’emotività del cantante venga sorretta da un minimo di garanzia di resa. Ma su questo la RAI è categorica. Mah…

Ma di preciso, cosa succede quando sei assunto nella baRAIcca?

I tempi di consegna delle parti d’orchestra del brano in genere sono subito dopo Natale. Il che significa che un pezzo inedito per Sanremo è stato vagliato dalla commissione tra ottobre e novembre e finito di missare a dicembre. DI sicuro la RAI non è ancora paperless: le parti vanno spedite in pacco espresso alla sede legale del Festival della Canzone Italiana nella versione cartacea, con una doppia copia d’archivio. Nei primi quindici giorni di gennaio viene fatta una lettura rapida senza il direttore e pochi giorni dopo una lettura meno rapida. Non è necessaria la presenza del/i cantante/i, almeno che non abbia un ruolo strutturale come musicista attivo (vedi una band). Questa prima sessione di lettura avviene in RAI, a volte negli studi di Cinecittà. Ma più spesso in uno dei capannoni di Saxa Rubra.

Quest’anno la disposizione in prova è a terrazzamenti, con la parte sinfonica in un piano ammezzato e la schiera estesa di musicisti pop della parte elettrica nel piano basso. Verso la ventina del mese di gennaio tutte le maestranze si trasferiscono al Teatro Ariston. Finché non è allestito il palco, non è dato sapere, come sarà disposta l’orchestra. Ci sono casi in cui gli strumenti vengono smembrati e messi a mo’ di scenografia in giro per il teatro. E questa cosa, per chi dirige, è un problema gigantesco. Altro dettaglio che sfugge al telespettatore (ma che crea enorme disagio a tutti quanti) sono le dimensioni reali del Teatro Ariston. Generalmente a soffrirne di più sono gli strumenti che avrebbero bisogno di uno spazio vitale ampio: i tromboni, ad esempio, avrebbero necessità di libertà di azione per la coulisse e così i contrabbassi e i violoncelli per l’utilizzo dell’arco. A quanto pare, però, vivono da sempre una battaglia contro la claustrofobia.

Se c’è una cosa che ho sempre detestato del recente direttore d’orchestra leggera è la gestualità piaciona e disimpegnata. Mi piaceva il direttore RAI maturo, elegante e compito, figura compassata sì, ma presa in prestito dal podio illustre della musica classica. Gradirei maggiormente una presa di coscienza e una maggiore, mi scuso per il termine, “dignità di servizio”. Cosa sono questi sorrisi, questi ammiccamenti? Sembra spesso che il direttore si bei del suo ruolo, come se essere direttori a Sanremo sia una conquista prestigiosa. Io auspico al ritorno della severità del ruolo, soprattutto perché il contrasto, con la leggerezza ostentata dall’establishment, è interessante. E visti i tempi, dove la musica è mezza scema, urge il gioco opposto. Non il giogo, ma il gioco. Ovviamente.

Scrivere con le regole di un contesto del genere è una sfida in puzzle-game di tempi per l’autore e un esercizio di stile coadiuvante per l’arrangiatore. Ma una persona non addentro potrebbe giustamente chiedere: “cos’è un arrangiatore”? E un altro più puntiglioso potrebbe aggiungere “che differenza c’è tra il produttore e l’arrangiatore”?

Con calma…

L’arrangiatore, storicamente, è colui che cuce il vestito al brano. E quanto è più bravo quanto più il vestito si fa brano e viceversa, senza che il proprietario di diritto del vestito soffochi nello sfarzo delle vesti o che resti nudo. Il produttore è colui che decide che quel vestito è giusto per l’autore oppure no. Un tempo le figure dell’arrangiatore e del produttore non si distinguevano quasi: Luis Bacalov che arrangiò su spartito “Legata ad un granello di sabbia” ne era, in un certo senso, anche il produttore. Oggi il produttore, che fa tutto su computer, ha un potere smisurato e può tutto anche sulle idee arrangiative messe in campo da altri. Può tagliare, sminuzzare, triturare, moltiplicare o (più spesso) eliminare. Può anche rendere infelice l’autore. Può, in taluni casi, sostituirsi ad esso e finire il disco in solitudine.

Morricone quando registrò un’arrangiamento per un disco di Morrisey sentì che di tutto il lavoro il produttore Tony Visconti aveva tenuto solo trenta secondi. E si imbestialì.

L’arrangiatore ”su carta” oggi ha vita durissima, e per quanto l’informatica possa sostituito bellamente, Sanremo è l’unica kermesse che lo riporta un po’ coprotagonista del fenomeno culturale massificato.

Finalmente costui lo guardano, attraverso i volteggiamenti delle telecamere a volo d’angelo, alcuni milioni di italiani sintonizzati. E la frase “dirige il maestro etc, etc,” risuona come una honoris causa popolare. Per i parenti, i cugini, gli zii è l’unico modo in cui dimostri di aver raggiunto lo status professionale.

E, se non è oberato dalla mole di stress che ne consegue, il “maestro” pensa per un attimo a quanto poco sa la gente di lui, e di quanta fatica c’è dietro quell’unica canzone (probabilmente brutta) per cui ha realizzato una partitura, fatta controllare dal copista nota per nota e parte per parte, provato con l’orchestra dopo una prima lettura disastrosa, ascoltato tutte le richieste di regia, del cantante, dell’autore (se non è lo stesso), del produttore, del primo violino e dei membri della band in loco.

Se poi la batteria non è scritta con tutti i crismi e il basso non ha adeguate informazioni sul suono da ottenere? Se poi non si ha mai diretto prima, la prova senza click fallisce miseramente sotto tonnellate di imbarazzo? Se poi durante la diretta agli in-ear monitor (gli ascolti, ciò, fatti attraverso una cuffia auricolare speciale aderente all’orecchio e invisibile all’esterno) si scaricano le pile?

Il disastro incombe e la gente non lo sa che è tutto in mano sua. Anche il cantante, ben più celebre di lui, è nel palmo della sua mano. E il discografico si agita e il cerone cola copioso sul colletto bianco.

Chi guarderà il 69° Festival della Canzone Italiana dia un occhio di riguardo al direttore d’orchestra e sappia che lui è il vero anello di congiunzione tra l’Homo neanderthalensis e l’Homo sanremus.

appunti della versione con ospiti de “Il paese è reale” - 2009

appunti della versione con ospiti de “Il paese è reale” - 2009